“They were like me. Una persona autistica tra i gorilla

Articolo pubblicato sulla rivista “Animal Studies”, 2022.

1. Neurodivergenza

Nel 1998, la sociologa e attivista per i diritti delle persone autistiche Judy Singer conia il termine «neurodiversità». Con questo neologismo, viene inquadrato in una prospettiva politica ciò che fino a quel momento era sostanzialmente un oggetto medico, l’autismo (e altre forme di differenza neurologica): «il neurologicamente differente rappresenta una nuova voce da aggiungere alle categorie politiche familiari di classe/ genere/ razza e un’integrazione del modello sociale della disabilità» [Singer 1999; p. 52].  Più recentemente, Singer [2019] ha associato il concetto di «neurodiversità» a quello di «biodiversità», per sottolineare il carattere non assiologico del termine. Non esistono, insomma, «persone neurodiverse», ma semplicemente persone neurotipiche (in relazione a una media statistica) e persone neuroatipiche o neurodivergenti, in un continuum di configurazioni individuali che danno luogo ad altrettanti modi di percepire, concettualizzare e organizzare l’ambiente. Come la biodiversità è preziosa per la conservazione della vita sul pianeta, così la neurodiversità non è semplicemente un disturbo da curare o tollerare benevolmente, ma, piuttosto, un promemoria dell’importanza delle «neuro-minoranze» in un contesto in cui la spinta generale sembra essere quella di mettere in atto «misure spesso anche violente per negare, evitare ed eliminare la disabilità e altre forme di variabilità umana cui non attribuiamo valore» [Garland-Thomson 2005; p. 524].

In effetti, le modalità di accesso al mondo delle menti allistiche e autistiche hanno entrambe i propri «punti di forza e debolezza» [Salomon 2010; p. 48]. All’interno di questa cornice, è possibile mostrare come alcuni funzionamenti autistici – evitando ogni stereotipizzazione o generalizzazione indebita – manifestino, se non un accesso privilegiato, certamente una modalità alternativa e preziosa di riconoscimento della personalità dei soggetti animali non umani. Tale “stile” di conoscenza permette di isolare alcuni elementi non usuali nella definizione di cosa costituisca una “personalità” e di delineare una visione della personalità non antropocentrata.

Sebbene vi siano diversi esempi nella letteratura autistica, prenderò in esame in particolare quello di Dawn Prince-Hughes, antropologa e primatologa austistica che ha lavorato per diversi anni con un gruppo di gorilla in cattività dello zoo di Seattle. Il testo che raccoglie alcune delle sue osservazioni su tali animali, Songs of the Gorilla Nation [2004], può essere considerato un classico esempio del sottogenere letterario delle “autibiographies”, poiché l’autrice ripercorre la propria vita, dall’infanzia fino all’età adulta, raccontando l’emergere della consapevolezza della propria neuroaticipità e l’apprendimento di una serie di competenze sociali tramite il rapporto con il gruppo di gorilla.

2. Sottrarsi allo sguardo

Un elemento costante del resoconto della traiettoria di vita di Prince-Hughes è quello di aver dovuto faticosamente apprendere a stare in società, a rapportarsi alle altre persone, a padroneggiare le norme sociali non scritte e una serie di aspetti non verbali della comunicazione umana. La difficoltà a integrarsi, responsabile di continue sofferenze nell’infanzia e nell’adolescenza, inizia a sciogliersi proprio a partire dall’incontro con i gorilla, tanto che, successivamente, l’autrice potrà affermare: «i gorilla mi hanno insegnato come essere civilizzata» [p. 6]. La frequentazione del gruppo di primati in cattività le permette di rispecchiarsi in relazione ad alcuni aspetti chiave delle proprie difficoltà di adattamento al consesso civile.

Un primo elemento che emerge è quello della privacy [p. 121, p. 127]. Prince-Hughes racconta dei problemi incontrati, durante la pubertà, a seguito del trasloco della propria famiglia in un alloggio senza suddivisione in stanze e dell’impatto di questa mancanza di uno spazio appartato, tale da indurla a passare la maggior parte del proprio tempo all’esterno. L’inusuale sensibilità a tale limitazione sarà un elemento centrale per comprendere con una profondità preclusa ai lavoratori dello zoo alcuni comportamenti dei gorilla. Questi ultimi, in particolare, mettono in atto una serie di rituali tesi a gestire lo stress dato dalla mancanza di spazi sottratti allo sguardo del pubblico [pp. 56-57]. Sia la motivazione che il tipo di risposta evidenziano un parallelismo stretto fra il comportamento rituale dei gorilla e quello di alcuni umani autistici, fra cui proprio Prince-Hughes, che descrive i rituali come una modalità da lei elaborata per gestire il sovraccarico di stimoli ambientali in determinati contesti. La possibilità di operare tale parallelo è quindi un elemento centrale per l’identificazione con i gorilla e la comprensione della violenza della cattività: «Mi sono spesso sentita come loro: un animale ansioso in uno zoo» [pp. 223-224].

Come sottolineato da Ralph Acampora [2006; pp. 190-206], gli elementi problematici degli zoo eccedono l’elemento della reclusione non consensuale, e sono legati anche alla loro «carceralità», in senso foucaultiano. Tale caratteristica dell’architettura del giardino zoologico, dello spazio in cui si trovano a interagire visitatori, gestori e animali, è caratterizzata da un dispositivo scopico che rimanda al panopticon, in cui il prigioniero deve poter essere sempre visibile. La necessità di sottrarsi allo sguardo è strutturalmente insoddisfatta e incompresa dagli umani che attraversano lo zoo, mentre è avvertita con precisione e con forte coinvolgimento empatico, non a caso, dal soggetto autistico, Prince-Hughes, la quale ha sempre sofferto per l’ingiunzione sociale a non distogliere lo sguardo o a rendersi visibile al prossimo. Al tempo stesso, la conclusione perentoria di Acampora, secondo cui in tali contesti spaziali e di potere è costitutivamente precluso l’incontro fra soggetti umani e non, sembra essere parzialmente smentita [Prince-Hughes 2001].

L’identificazione non avviene soltanto grazie all’osservazione di tratti comuni inaccessibili al pensiero allistico; Prince-Hughes avverte una forte affinità anche a partire dagli elementi di esclusione sociale. Le modalità con cui una società neurotipica disabilizza la neurodivergenza – ossia la esclude dalla piena cittadinanza rendendola artificialmente deficitaria – sono analoghe a quelle con cui il suprematismo umano marginalizza le soggettività non umane, in un intreccio non facilmente districabile di abilismo e specismo [Taylor 2021]. La posizione privilegiata occupata dal pensiero neurotipico, infatti, «non si limita a invalidare e a rendere sospetto lo sguardo autistico, ma al tempo stesso invalida e rende sospetta l’intelligenza animale», con diverse conseguenze negative per i diritti animali, fra cui quella di screditare le manifestazioni di empatia nei confronti dei soggetti non umani [Salomon 2010; p. 49].  Prince-Hughes, per questo, si identifica nei gorilla non solo in quanto ravvisa una serie di attributi comuni, ma anche nella misura in cui gli altri umani non si identificano con lei: «la gente tratta i gorilla in modo simile a come sono stata trattata io per tutta la vita» [2004; p. 95]. Sebbene non sia pacifica la possibilità di generalizzare il senso di tale vissuto come sembra fare Salomon [2010, p. 50], è probabile che l’esperienza di chi vede le proprie capacità e percezioni radicalmente ignorate, svalutate o banalizzate faciliti la comprensione del vissuto animale e la mobilitazione a sostegno degli oppressi di altre specie.

3. Performare l’umano (neurotipico)

Un secondo ambito di interesse è legato al processo di apprendimento delle modalità di relazione umane da parte dell’autrice, processo la cui ricostruzione rivela che, in linea con le teorie della performatività di genere, la specie è essa stessa una performance. Se, infatti, il carattere performativo, naturalizzato più che naturale, dell’identità di specie [Dell’Aversano 2010; Reggio 2018] risulta di norma poco evidente, proprio perché un effetto intrinseco delle modalità di costruzione dell’identità del soggetto è l’occultamento della costruzione stessa [Butler 1999], la traiettoria di apprendimento del soggetto autistico – un apprendimento delle norme sociali meno incidentale e più esplicito di quello neurotipico [Prince-Hughes 2004; p. 80] – mostra in modo più chiaro come animalità e umanità siano delle performance, laddove la performance è una «ripetizione ritualizzata di convenzioni» [Butler 1997; p. 144].

Prince-Hughes descrive tale processo nel modo più letterale possibile, facendo riferimento a un periodo in cui lavora come ballerina in un night club impersonando degli animali esotici. La sua performance, a differenza di quella delle altre lavoratrici, fallisce. Per il pubblico, la danzatrice si sta immedesimando eccessivamente: fa davvero il giaguaro, il leone o la pantera, anziché offrire una rappresentazione esotizzante ed erotizzata della fiera. La modalità di accesso al simbolico sembra qui comune a molte menti autistiche, che riferiscono esattamente di un’incapacità di svolgere durante l’infanzia il gioco simbolico nei termini più comunemente osservabili [Mignani, Gobbo 2002]. Per le colleghe, la rappresentazione non è soltanto inadeguata, è addirittura angosciante. L’elemento in grado di turbare le altre ballerine, secondo la sua ricostruzione, risiede nel rimandare a una condizione di cattività: Prince-Hughes non sta semplicemente performando le movenze di alcune specie non umane, sta impersonando degli animali prigionieri, e la possibile identificazione con gli animali dello zoo – in quanto lavoratrici sessualizzate, ma soprattutto in quanto oggetto di continui sguardi reificanti cui strutturalmente è impossibile sottrarsi – non può che generare ansia e negazione [Prince-Hughes 2004; p. 73]. Come per quella di genere, in questa performance di specie ciò che viene richiesto in quanto rassicurante rispetto all’ordine binario e gerarchico dei rapporti fra le specie, e che la protagonista non riesce a incarnare, è un «effetto di naturalità» [Butler 1999; p. 21].

Sembra impossibile non pensare al fenomeno del masking o camoufflage autistico, in cui il soggetto imita i comportamenti neurotipici seguendo degli schemi appresi, spesso detti “copioni”, con un risultato che può non sembrare spontaneo. La distinzione fra comportamento neurotipico spontaneo e masking, osservata alla luce di quanto detto sopra, sembra sfumare, poiché ogni comportamento è frutto di un apprendimento e di attività mimetiche, più o meno consapevoli: la differenza, ancora, può essere ricondotta piuttosto alla capacità di apparire più o meno spontanei. Il masking riecheggia dunque il passing di genere, come testimoniato dall’insistenza in un testo successivo su questo termine, passing, in relazione alla propria incapacità di performare l’umanità in modo convincente («non riuscivo a passare da persona normale» [2013, p. 21]). Nel passing, infatti, «la possibilità di passare come reali, ossia di sviluppare in modo artificioso un effetto apparentemente naturale, comporta inevitabilmente una de-naturazione proprio di quelle norme che in altri contesti servono a imporre credenze e a conferire “realismo”» [Iveson 2012; p. 21].

4. «They were like me»

Che idea di personalità emerge, dunque, dall’esperienza dell’autrice?

Da una parte, Prince-Hughes afferma che le scimmie soddisfano i correnti criteri tradizionalmente considerati necessari per l’attribuzione di personalità: «auto-consapevolezza, comprensione delle dimensioni del passato, presente e futuro; capacità di capire regole complesse e loro conseguenze sul piano emotivo; la capacità di scegliere di rischiarne le conseguenze; empatia; facoltà di astrazione» [p. 206]. Questo riconoscimento è di per sé sufficiente all’autrice per introdurre una prima critica della cattività.

D’altra parte, l’autobiografia lascia emergere una serie di attributi non tradizionali, che vale la pena menzionare: una persona è in grado di insegnare ad altri individui, non necessariamente della stessa specie, a comunicare e comportarsi in relazione agli altri; una persona può essere incompresa profondamente, come accade alla protagonista e ai gorilla, dato che i comportamenti di entrambi sono sovente misinterpretati dagli umani neurotipici; una persona può interpellare moralmente altre persone, non necessariamente tramite il discorso etico. Rispetto a questo punto, una lunga riflessione sui problemi dei rapporti di Prince-Hughes con la sua partner, si apre con (e viene guidata da) la domanda “che cosa avrebbe pensato di me Congo?”, uno dei gorilla dello zoo, portandola a riconoscere il proprio status di persona in quanto agente morale: «I affect people» [p. 218].

Infine, l’autrice sintetizza l’idea di persona in tutta la sua portata etico-politica con riferimento alle scimmie non umane, che costituiscono «un dono […] non per quello che sono in grado di fare per noi, non per quello che hanno fatto per me, ma per quello che sono in sé e per sé» [p. 211].

Se, da una parte, l’accesso alla personalità animale è favorito dallo stile autistico, dall’altra è possibile affermare che l’incontro con l’alterità animale getta nuova luce sull’autismo stesso, come abbiamo visto nel caso del masking. In particolare, contribuisce alla decostruzione di alcuni diffusi stereotipi, fra cui quello che vorrebbe i soggetti autistici sprovvisti di empatia, incapaci di comprendere il linguaggio corporeo o di comprendere e condividere gli stati mentali. Rispetto a questi ultimi due punti, è significativo che Prince-Hughes riporti di avere appreso la mimica e il linguaggio del corpo dai gorilla, il cui stile sarebbe più diretto, onesto e coerente, senza le ambiguità e i sottotesti umani. Si tratta di un’osservazione preziosa perché rivela che la società neurotipica considera deficitarie le persone autistiche e che al tempo stesso, in quanto specista ma anche in quanto neurotipica, etichetta la comunicazione animale come meno sofisticata, perpetuando l’idea che i non umani siano riducibili alla dimensione corporea della persona. «Non solo le scimmie possiedono un linguaggio complesso e olistico, ma comunicando con noi, ci indicano che potremmo essere noi quelli meno abili nell’arte di condividere la vera esperienza soggettiva» [Prince-Hughes; p. 136].

Per questo, l’idea di persona/personalità espressa, anche implicitamente, da Prince-Hughes, supera l’antropocentrismo ma anche lo “zoocentrismo” delle concezioni più classiche dei diritti animali, ed è forse definibile utilizzando la categoria del “postumano” più che quella dell’“antispecista” [Bergenmar, Bertilsdotter-Rosqvist, Lönngren 2015; p. 212], sia perché la personalità viene attribuita dall’autrice a un insieme di esseri più vasto, fra cui alcune cose inanimate, sia perché la dicotomia specie/individuo, che generalmente presiede alla distinzione fra conservazionismo e antispecismo, sembra sfumare [Prince-Hughes 2004; p. 96]. Inoltre, lo sguardo autistico permette di mettere profondamente la barriera di specie facendo emergere il carattere parziale dell’umano paradigmatico: «Mi rendo conto di essere solo in parte “umana”, e di essere perlopiù qualcosa di completamente diverso» [p. 85]. Cionondimeno, l’ottica postumana di Dawn Prince-Hughes non rifugge dal compito di denunciare l’ingiustizia del suprematismo umano prendendo posizione contro la violenza dei rapimenti degli animali in natura e della loro reclusione negli zoo. Lo fa a partire da un’identificazione più complessa del semplice allargamento del cerchio della considerazione morale a coloro che sono a noi più prossimi: «They were like me» [p. 93], la sintesi del suo incontro con i gorilla, lungi dal rappresentare una banale constatazione del possesso di importanti caratteri umani da parte dei membri di un’altra specie, giunge al termine della toccante scoperta di un modo di essere e relazionarsi – di una personalità – compatibile con lo stile autistico, di uno sguardo non opprimente, di una interlocuzione finalmente sostenibile. «Per la prima volta nella mia vita, stavo guardando delle persone».

Bibliografia

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